Vita e matita di Gianfranco Zavalloni
di Michele D’Ignazio*
Sapere, fare, saper fare, far sapere: l’insegnamento è un ciclo, come quello della vita. Probabilmente bisogna partire da qui, per capire Gianfranco Zavalloni, maestro, disegnatore, educatore, dirigente scolastico. Insegnare fa rima con disegnare. E vita fa rima con matita.
“La pedagogia della lumaca”, il libro di Zavalloni più conosciuto, che è anche la sintesi del suo modo di insegnare, è diventato un punto di riferimento per molti insegnanti e per chi pratica una scuola pensata intorno ai bambini, una scuola dai ritmi diversi, più aperta al mondo, più manuale e più creativa.
Partiamo dal Sapere, che necessita osservazione, ascolto, ripetizione, lentezza. Nella scuola, scrive Andrea Magnolini, collaboratore di Zavalloni, “spesso si respira una sorta di consumismo culturale: appena si imparano le equazioni si passa ai logaritmi”. Invece, la scuola che immagina Zavalloni è molto più simile all’aria che si respira nelle botteghe degli artigiani, un mondo pieno di odori, di storie e di Storia. Un mondo che, quando è all’opera, è silenzioso e concentrato.
Una scuola che sia tradizione, prima di tutto, ma anche consapevole “tradimento”, ovvero quel pizzico di libertà innovativa che muove la storia dell’umanità. Una scuola che sia creatività. Zavalloni amava i maestri cestai, i burattinai, i contadini e la loro cultura.
E il sapere deve essere necessariamente accompagnato dal Fare, imitando, ripetendo, conquistando fiducia.
Spesso si ha la presunzione di sostenere che il sapere e la conoscenza possano bastare e siano fine a sé stesse. Ma il sapere è uno strumento, sono tanti strumenti, poi c’è da muoversi, c’è da sudare. E i bambini questo lo devono imparare, con la loro pelle e le loro mani. “Se noi non insegniamo a un bambino l’esperienza di usare bene le mani, quel bambino che imparerà ad usare il computer e il cellulare non saprà però dosare tutto ciò che riguarda la manualità e la psicomotricità che deriva dal maneggiare alcuni strumenti, così come da noi appreso nella nostra infanzia”, sostiene Zavalloni.
Saper Fare. Magnolini scrive: “Ci si accorge di aver fatto il primo passo quando si matura, con l’esperienza e il lavoro pratico, il senso della misura e delle proporzioni (…) il secondo passo è quello di saper creare tenendo conto delle nostre capacità, i rapporti fra le parti e il tutto (…) capacità testimoniate da uomini e donne che, nelle diverse culture, hanno raggiunto il senso della geometria e della bellezza anche senza righello. Queste sensibilità possono essere sviluppate secondo gradi diversi grazie al lavoro manuale e all’osservazione”. Saper fare, in una parola: mestiere.
“L’esperienza diretta crea spontaneamente un’economia di gesti, si impara dove mettere le mani e ad eliminare lo sforzo non necessario. Lo si impara quasi naturalmente e di pari passo si impara non solo l’efficienza, ma anche l’eleganza”. Con lentezza.
E, infine, Far Sapere: testimoniare, documentare, condividere, non accentrare. Non solo il sapere, ma anche l’arte di insegnare.
Ne “La pedagogia della lumaca” colpisce un dettaglio: ogni volta che Zavalloni racconta l’esperienza o il pensiero di un insegnante, un genitore, uno scrittore o un dirigente scrive, subito dopo il nome, tra parentesi, il suo indirizzo email. Come a voler dire ai lettori: fate rete, conoscetevi, non fermatevi alla pagina del libro, contattate la persona di cui sto parlando, scambiatevi conoscenze ed esperienze, incontratevi!
Magnolini scrive che Zavalloni “aveva un modo pratico di credere in te che quasi sempre spiazzava”. Si circondava di persone, spesso molto giovani, chiamate ad essere contadini dell’insegnamento, a smuovere la terra e lanciare semi.
C’è un tempo per la semina, uno per il raccolto, uno per il riposo e uno per la festa: la cultura contadina ci insegna che ogni attività umana ha forma ciclica e che senza semina non c’è raccolto, senza raccolto il riposo non sarà buono, e senza raccolto e riposo alla festa non ci si diverte.
Ma la festa è importante, probabilmente fondamentale, così come lo è il gioco per i bambini.
Ne “La pedagogia della lumaca”, Zavalloni scrive:
Abbiamo rubato ai bambini il piacere di giocare davvero. Abbiamo eliminato dalla città i veri spazi di incontro spontaneo fra bambini. Abbiamo impegnato le loro vite programmandole fin dalla più tenera età […] Eppure noi adulti sappiamo bene che la vita è fatta di casualità, di incontri importanti che aprono nuove strade e di passioni che si sviluppano improvvisamente. Come possiamo ipotecare l’infanzia?.
Ho sempre sostenuto l’idea che noi dobbiamo tornare bambini. Tornare bambini vuol dire per me essere attenti al mondo dell’infanzia come tale… e non come preparazione alla «vita vera», cioè a quando si diventa adulti.
L’urlo silenzioso che il mondo dei bambini e delle bambine ci lancia è «lasciateci giocare!»
Il tempo dell’infanzia è un tempo di gioco, d’incontro libero fra coetanei, di scoperta spontanea del mondo, senza la presenza ossessiva di adulti che pretendono di programmare, progettare, spiegare, istruire ogni cosa.
Insegnare fa rima con disegnare e Zavalloni, con i suoi disegni, è riuscito a stabilire un canale di comunicazione immediata con i bambini, una porta verso il suo mondo pieno di fantasia. Zavalloni in fondo disegnava come un bambino, ma la sua mano era sicura e sapeva cosa voleva disegnare: disegnava tante foglie, case con i comignoli, vicoli di paesi, treni, finestre, fiori, matite, biciclette e soprattutto tanti bambini.
Prima ancora dei bambini, c’è bisogno di insegnanti desiderosi di ascoltare, osservare, imparare. E due ingredienti per una buona scuola sono probabilmente semplicità e sincerità.
“Ogni maestro è testimonianza vivente di mondo: di esperienza e valori, cultura e progetti, visioni della vita e attitudini, passioni e capacità di relazione (…) ciò che pensa e sente passa, trasuda da ogni gesto e parola, anche e soprattutto dal non detto, mentre i bambini guardano. I bambini sanno distinguere ciò che è autentico da ciò che è falso”, scrive Simonetta Ferrari.
E bisogna stare attenti ai tranelli. Zavalloni ad esempio mette in guardia dal “tempo-freccia” e dai tanti rischi, come la “pedagogia della fotocopia”: la brutta abitudine, spesso diffusa nelle scuole materne e primarie, di fotocopiare delle immagini e chiedere ai bambini di copiarle o di riempirle di colore. Così facendo, si inibisce l’originalità del bambino, che invece ha bisogno di confrontarsi con il foglio bianco. Ed è normale che molti siano disorientati. Ma è attraverso quel disorientamento che, con lentezza e intelligenza, esce fuori la creatività e l’originalità di ogni bambino.
“Ogni fanciullo, in qualche modo, ricomincia da capo la storia del mondo”, scriveva Henry Thoreau. E la storia del mondo, probabilmente, nasce da un punto e continua con una linea. Lasciamo che siano i bambini a farla, incoraggiati sì, ma con libertà.
Il nostro è un “tempo-freccia”. Proviamo a recuperare un tempo che sia più rotondo, ondulato, capace di sorprenderci.
Proviamo a sburocratizzare la scuola, a parlare di diritto di contadinanza attiva, di pedagogia della strada e della tavola, di orti di pace.
Proviamo a dare senso al cammino, durante e dopo la scuola, piuttosto che agli arrivi, agli obiettivi, agli esami. Questo è stato l’invito (e la vita) di Gianfranco Zavalloni.
“È vero maestro non colui che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali tu puoi liberamente inoltrarti.”
E di strade, Zavalloni ce ne ha indicate tante.
Da http://comune-info.net