SARAJEVO: 11 dicembre 1992 – 11 dicembre 2012
A Sarajevo è stato ricordato e celebrata la memoria dell’inizio della guerra il 6 aprile scorso. Quando si pronuncia la parola Bosnia il pensiero va immediatamente alla guerra, alle sue peculiarità etnico – religiose, alle ipocrisie della Comunità internazionale, a una pace imposta e fragile piuttosto che a una riconciliazione stabile, a uno status quo di poteri separati e corrotti sotto tutela della presenza militare internazionale.
Sarajevo è stata e rimane la città simbolo, anche se non ha conosciuto le atrocità peggiori. A Sarajevo anche ora si ritrovano geograficamente concentrati i problemi irrisolti, la fatica di molti per la sopravvivenza, la mancanza di prospettive per il futuro, la spaccatura tra la realtà della popolazione e la classe politica corrotta; soprattutto una memoria difficile, divisa su quanto avvenuto, dove nessuno può esprimere la propria “verità” senza offendere gli altri. I più giovani non vogliono nemmeno venga ricordata la guerra, per gli adulti rimane anche una memoria ingombrante.
Anche per noi la realtà di quella guerra comporta una memoria divisa e una narrazione molto diversificata.
Ma Sarajevo per molti di noi non è solo guerra di Bosnia.
Sarajevo è anche l’esperienza inedita di interposizione nonviolenta di società civile; coinvolgimento personale e collettivo di un nuovo modo di entrare e stare nel conflitto armato; nuove forme di organizzazione di democrazia diretta con il metodo del consenso fondato sulla fiducia collettiva; assunzione di responsabilità individuale e politica per far tacere le armi; capacità di suscitare nuove relazioni di solidarietà diretta a fianco di chi si è trovato costretto per anni in balìa di scelte violente non volute; coinvolgimento di tantissime comunità locali in Italia, trasformazione dei volontari da soggetti umanitari in operatori di informazione diretta per creare coscienza in tutta la società; iniziative e percorsi di diplomazia popolare presso tutte le sedi istituzionali sul campo, presso gli enti locali e il Governo italiano, il Vaticano, fino a un rapporto continuativo con l’ONU a Ginevra, per fare pressione sulla Comunità internazionale per arrivare alla pace. Una miriade di iniziative e di percorsi.
Di tutto questo a vent’anni dalla cosiddetta marcia dei 500 “Solidarietà di pace a Sarajevo” non esiste narrazione storica, non esiste valutazione politica. Esiste solo memoria frammentata delle persone e dei gruppi direttamente coinvolti, ma sia in Italia che a Sarajevo non c’è traccia. Non potremmo iniziare una narrazione collettiva loro e noi? Tutto questo potrebbe essere motivo serio per ritornare insieme a Sarajevo; concorrere a stimolare un processo, che ci veda insieme a costruire un’Europa, capace non solo di esaminare i parametri economico-finanziari, ma in grado di rispondere al desiderio, dei giovani in particolare, di avere prospettive di una pace fatta di democrazia reale e di possibilità di futuro per tutti.
"Beati i costruttori di pace"
Associazione Nazionale di Volontariato - Onlus