Paolo Rumiz e l'arte di scrivere con i piedi
Inserito
da Giorgio Gatta venerdì 18 ottobre 2013
di Fabio Lepre
Qual è il periodo migliore per mettersi in viaggio?
«I viaggi nascono quasi sempre nelle stagioni di mezzo. È l’equivalente di quanto accade con gli uccelli migratori. È un fatto biologico: anche se non hai le penne ti viene una certa inquietudine migratoria. È la nostalgia del nomade nascosto in noi. C’è qualcosa di antico che si sveglia quando fioriscono le acacie o gli ippocastani o quando l’estate finisce e in montagna cominciano i colori d’autunno».
Quali luoghi scegliere?
«La distanza non c’entra niente. Conta il desiderio che si accende per vie misteriose. Può nascere da una chiacchierata in una bettola con amici o da una visione, dalla lettura di un libro o da una frase sentita per caso e acchiappata al volo. Per esempio, ricordo che venti anni fa, un ingegnere mi riconobbe in una libreria e mi raccontò del passaggio delle oche selvatiche in Bielorussia. Da allora è diventato uno dei miei pensieri fissi. Così come non posso dimenticare i colori dell’Afghanistan descritti nel libro “La polvere del mondo” di Nicolas Bouvier, uno dei più grandi scrittori di viaggio del secolo scorso. Il viaggio è allora un atto passionale e non un calcolo. È come incrociare lo sguardo di una donna che ricorda qualcosa di misterioso».
Come si parte?
«Occorre tagliare i ponti con il proprio luogo e arrendersi al viaggio e ai posti che si visitano, senza rimanere agganciati all’elastico. Non sei tu che fai il viaggio ma è il viaggio che fa te. Meglio essere sempre pronti ad abbondare le proprie certezze per conoscere cose nuove. Il viaggiatore è disponibile alla continua messa in discussione di se stesso. Deve lasciare che il caso stabilisca la tabella di marcia. Non c’è niente di peggio di un viaggio totalmente organizzato. È un po’ come nell’amore: sognare molto, calcolare poco. Mi vengono in mente le parole di Virgilio Zecchini, un noto alpinista triestino morto di recente a 71 anni. Di fronte alle proposte di viaggio rispondeva sempre: “Cedo alla violenza”. Ecco, credo che in questo mondo in cui tutto va così di fretta, occorre cedere più spesso alla violenza degli incontri».
Cosa portare con sé?
«La regola è viaggiare leggeri. È meglio portarsi meno di ciò che serve perché si può sempre comprare qualcosa lungo la strada. La capacità di adeguarsi agli imprevisti del viaggio dipende molto dalla leggerezza del bagaglio. Di fronte a un evento irripetibile da vedere subito o a un incontro da attivare, non puoi trovarti nelle condizioni di fermarti e magari tornare in albergo: devi avere tutto con te. Meglio dotarsi di pesi minimi, ridurre quasi a zero le scartoffie e portare con sé abiti facilmente lavabili. Un mio parente, un ebreo di Budapest che vive a Trieste, indicava nel denaro, nei documenti e nelle carte geografiche, gli oggetti indispensabili. Io ne aggiungo un quarto: le scarpe. Sono convinto che un buon paio di scarpe valga più di cento guide e rappresenti il mezzo con cui venire accettati da chi si incontra».
E da scrittore come rassegnarsi all’assenza di libri?
«Nel viaggio il vero libro è la vita che incontri. Da giornalista, ho colto certe occasioni solo grazie alla leggerezza. Mi trovavo al confine con l’Afghanistan, in attesa dell’apertura delle frontiere, con un bagaglio di soli 4-5 chili. Avevo lasciato tutto a Islamabad, in Pakistan, ma al passaggio dei camion dei Mujaheddin, ero stato in grado di saltarci subito sopra».
Qual è la sua zona maestra?
«Il sud-est. La mia è una direzione mentale insopprimibile. In tutti i miei viaggi ho notato che più vado a sud e più le dimensioni umana e degli incontri aumentano. La stessa cosa succede viaggiando verso est: Dalmazia, Puglia, isole del Mediterraneo orientale, Balcani, Russia. Non è paragonabile la complessità del mondo slavo rispetto alla vita in Germania o in Francia. C’è molto imprevisto associato a qualche rischio in più».
C’è un rapporto fra il cammino e la scrittura?
«Sì, ed è strettissimo. Ogni viaggio ha una sua metrica di racconto che dipende dai luoghi e dal mezzo di trasporto. Una storia raccontata in bicicletta è diversa da quella del viaggio a piedi. La prima è un mordi e fuggi profondo mentre il viaggio a piedi è più introspettivo e complesso. Il viaggio in treno, invece, ha un ritmo sincopato segnato dalla visone laterale della vita. E tutto questo si rispecchia nella scrittura. La prosa del libro “L’Italia in seconda classe”, scritto nel 2002, non ha niente a che vedere con il racconto del viaggio in barca a vela da Venezia fino a Lepanto. Ma se vuoi raccontare sul serio una cosa e vedere la gente (amici, parenti, ragazzi, compagni di viaggio) soggiogata dalle tue parole, allora è meglio usare qualcosa di molto simile all’orale: gli endecasillabi, figli della camminata (il libro di Rumiz “La cotogna di Istanbul” è scritto interamente in versi endecasillabi, nda)».
Ha fatto riferimento al concetto di resa dinanzi al viaggio e ai luoghi che si visitano. Quali luoghi l’hanno costretto alla capitolazione?
«Il Monte Libano visto dal deserto della Siria, coperto di neve come la gobba della balena bianca; le guglie della fortezza del Monastero di Solovki, nel Mar Bianco; l’ombra di un orso sulla mia tendina in una notte di luna in Montenegro; il passaggio della punta dell’Istria battuta dalla bora; l’attraversamento del canale del Quarnaro presso l’isola di Lussino, in Croazia, con la barca piegata a più di 45 gradi; una mandria di migliaia di buoi dalle immense corna guidata da altissimi guerrieri mentre attraversa, nel sud del Sudan, una strada in terra battuta; l’odore di zuppa dopo aver scalato lo Stelvio in bicicletta».
http://www.traterraecielo.it
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