Arcivescovo di Ouagadougou nominato Cardinale
Uno dei nuovi cardinali che saranno creati da Papa Francesco il 22 febbraio prossimo è mons. Philippe Ouedraogo, arcivescovo di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Sessantotto anni, mons. Philippe è stato vescovo di Ouahigouya dal 1996 per diventare arcivescovo metropolitano nel 2010.
Parla monsignor Philippe Ouedraogo
Dalle stragi di Lampedusa all’integralismo islamico in Africa. Dalla crisi di valori nella società burkinabè alle sfide della sua Chiesa. Dall’impegno dei cattolici in politica alla formazione delle coscienze. Colloquio con l’arcivescovo metropolitano di Ouagadougou.
Monsignor Philippe Ouedraogo è arcivescovo di Ouagadougou dal 2010. Fin dal 1996 è stato vescovo di Ouahigouya, città nel Nord, a grande maggioranza islamica. Lo incontriamo nel salone dell’arcivescovado, proprio mentre nelle strade della capitale si festeggia la vittoria calcistica del Burkina Faso sull’Algeria.
Monsignor Ouedraogo, come legge il dramma di Lampedusa?
«Oggi se si parla di Africa in Europa si parla di Lampedusa. Un giornalista ha confrontato le migliaia di africani periti nell’Atlantico a causa della tratta degli schiavi con i morti della migrazione dall’Africa all’Europa. Forse è un po’ forzato come paragone. Le motivazioni non sono le stesse e la situazione neppure.
Il Papa ha denunciato la mondializzazione dell’indifferenza. In questo l’Europa è colpevole e ha anche delle responsabilità: la colonizzazione, poi le indipendenze. Ora siamo in una situazione catastrofica di povertà, di insicurezza a causa delle guerre, e tutto questo contribuisce a far partire le persone. Ma noi, gli africani, cosa abbiamo fatto per rendere vivibili i nostri stati? I responsabili si sono riuniti ad Addis Abeba in questi giorni, hanno passato il tempo a parlare della loro sicurezza, rispetto alla Corte penale internazionale, ma hanno trascurato questo problema che è il più importante. Se i nostri governanti rubano, bisogna giudicarli. L’autorità non è niente altro che un servizio. Se i dirigenti non realizzano che sono in quella posizione per fare il bene del popolo, per il bene comune, se saccheggiano le magre risorse, occorre giudicarli, a qualsiasi livello.
Questa situazione di miseria che si perennizza, è sfida enorme, e la responsabilità è grande sia a livello di chi governa sia della popolazione. Bisogna lavorare, avere iniziativa, prendere il nostro destino in mano. Dunque le responsabilità sono condivise».
Lo scorso luglio voi vescovi del Burkina Faso avete scritto una lettera pastorale critica nei confronti dell’istituzione del Senato, voluto dal presidente. Una presa di posizione coraggiosa.
«I vescovi sono dei pastori, dei servitori del popolo di Dio. Se la situazione sociale, umana, sanitaria, alimentare, educativa, di sicurezza della gente non interessasse noi pastori sarebbe una vera catastrofe. Abbiamo una responsabilità comune e dobbiamo essere la voce dei senza voce. Siamo in mezzo al popolo, siamo solidali con esso, abbiamo quotidianamente delle sfide da affrontare, sulla povertà e sull’avvenire di questa gente. Siamo dei cittadini come gli altri, e penso che abbiamo voce in capitolo. “Alla parola in famiglia è convocato ogni membro della famiglia - diciamo in moore - al lavoro della famiglia devono essere convocati tutti i membri della famiglia”, compresi i vescovi: siamo anche noi membri della famiglia. Se la gente ci rifiuta il diritto di parlare e vuole che stiamo confinati nelle nostre sacrestie noi non siamo d’accordo, siamo qui e abbiamo una missione da compiere. Abbiamo sottolineato che noi non abbiamo un ruolo politico, un ruolo deliberativo, ma abbiamo un contributo da portare e teniamo a salvaguardare la nostra neutralità e la nostra libertà per poter comunicare il Vangelo al servizio di tutti gli uomini. È per questo che abbiamo preso la parola, perché ci sono quelli che non riescono a farsi sentire, i poveri e i dannati della terra, gli analfabeti, chi vive in campagna. Poi c’è la minoranza di coloro che vivono nell’agio e hanno tutto in mano. Bisogna riequilibrare le cose, in modo che tutti abbiano, ognuno al proprio livello, una parte irrinunciabile nel costruire il bene comune, a cominciare dai responsabili».
Le parole di papa Francesco vanno un po’ in questo senso. Hanno influenzato la vostra iniziativa?
«In Africa e in Burkina Faso siamo stati molto contenti ed entusiasti dell’elezione di papa Francesco. Il fatto di essere un non europeo è un segno molto forte. La Chiesa è universale, occorre un cambiamento di mentalità, in particolare che i cristiani d’Europa cambino, a cominciare dal Vaticano. E il papa ha centrato il problema. Qui abbiamo un’opzione pastorale fondamentale: “Chiesa famiglia di Dio”. Il sinodo speciale per l’Africa del 1994 ha generalizzato questa opzione fondamentale per tutta la chiesa africana: costruire la Chiesa famiglia di Dio attraverso le piccole comunità cristiane di base. Siamo contenti che questo papa arrivi dall’altro lato del mondo e abbia un’esperienza e una sensibilità particolare, che porterà qualcosa alla Chiesa.
Sono stato a Roma recentemente, ho partecipato all’udienza del mercoledì, e sono anche andato ad Assisi e ho concelebrato con il papa. Questo uomo è straordinario! Il fatto stesso che abbia scelto il nome Francesco è un segno forte: riportare la Chiesa al Vangelo. Come dice Charles de Foucault: “Se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi”. Costruire insieme, come ha detto Bergoglio, una Chiesa al servizio, una Chiesa umile, fraterna. Io sono in profonda comunione con lui e quando l’ho potuto salutare all’udienza gli ho detto: “Santo Padre noi vi amiamo”. E lui: “Pregate per me”».
Come è stata accolta la lettera pastorale nelle parrocchie?
«La lettera è stata letta nelle chiese. Un uomo politico è venuto da me a lamentarsi perché dopo la lettura la gente ha applaudito: scandalo! “La Chiesa fa politica. Non mi ritrovo più in questa Chiesa”. Gli ho detto: “Calmati, il prete ha letto la lettera, non ha chiesto alle persone di applaudire. Voi organizzate le manifestazioni, e forse le persone vi partecipano perché le pagate. Ma ci sono altre manifestazioni a cui la gente partecipa senza essere pagata”. Questo significa che le persone si sono ritrovate nelle parole della lettera.
Non tutti l’hanno apprezzata, i cristiani non hanno tutti la stessa sensibilità politica. Alcuni sono furiosi contro il loro pastore: “Si immischiano in cose che non li riguardano” pensano. Oppure: “Dovevano dare la lettera a Blaise (Compaoré, presidente del Burkina Faso, ndr), senza pubblicarla”. La Chiesa ha la sua maniera di lavorare. Noi vogliamo assumere il nostro ruolo morale e spirituale, non politico. Per questo rifiutiamo di andare all’Assemblea Nazionale a deliberare, ma se ci sono delle istanze di concertazione, siamo disponibili. Sempre restando nella prospettiva della dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona, il bene comune, la solidarietà e il principio della sussidiarietà. La lettera va in questo senso. I sacerdoti l’hanno accolta e l’hanno distribuita al popolo di Dio. La parrocchia universitaria ne ha diffuso 20.000 copie. Non vogliamo l’unanimità totale. Abbiamo alimentato il dibattito, la gente si interroga, e penso questo possa contribuire alla maturazione politica.
Non abbiamo scritto la lettera per fare la lezione alle altre confessioni. Abbiamo letto su Internet: “Anche i musulmani e i protestanti devono pronunciarsi”. Ma non abbiamo la stessa organizzazione o lo stesso metodo di lavoro. Noi siamo in armonia con loro».
E qual è stata la reazione a livello del governo?
Sono stati piuttosto discreti. Mesi fa avevamo dato la nostra posizione rispetto alla modifica dell’articolo 37 della Costituzione, e loro hanno scritto contro di noi. Noi non abbiamo replicato. Ma questa volta non ci sono stati scritti che ci attaccavano. Siamo stati convocati dal presidente, al quale abbiamo spiegato il perché della lettera: non è per creare problemi al paese, al contrario. Si può dare un’altra lettura, ma il nostro obiettivo non è la sovversione, non è rovesciare Blaise, ma contribuire al bene comune, alla pace e alla coesione sociale, che è una delle nostre ricchezze».
Ci sono esperienze di dialogo interreligioso a livello nazionale o della sua diocesi?
«A livello della conferenza episcopale esiste una commissione per il dialogo interreligioso, organizzata con gruppi nelle diocesi e nelle parrocchie. Nell’arcidiocesi di Ouagadougou abbiamo una commissione diocesana. In Vaticano c’è un Consiglio pontificio per il dialogo interreligioso. Ogni anno produce una lettera rivolta ai musulmani, noi la trasmettiamo ai nostri fratelli islamici che la leggono alla preghiera o talvolta durante le feste.
In tutte le famiglie c’è una certa tolleranza. I legami di sangue sono più forti dei legami di religione. Inoltre ci sono dei matrimoni interetnici e questa è una fortuna per noi e in Burkina Faso non abbiamo problemi. Nella mia famiglia la maggioranza è musulmana, poi ci sono cristiani, e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici e tristi. A Natale i cristiani offrono da mangiare ai musulmani, e viceversa per le feste islamiche.
In questi ultimi anni vediamo crescere un certo integralismo, ma è davvero recente e noi lottiamo per salvaguardare la tolleranza tra differenti comunità religiose ed etnico culturali.
Da parte mia tentiamo di avere relazioni fraterne: conoscersi, stimarsi reciprocamente. I musulmani non sono indifferenti a questo.
Ogni anno durante la festa islamica della Tabaski vado alla preghiera alla grande piazza della Nazione. Tra Natale e Capodanno il presidente della comunità musulmana, il grande imam e una decina di imam sono venuti qui a salutarmi. Questo ha provocato la reazione di alcuni giovani integralisti, che sono andati ad assediare il grande imam per chiedergli conto della sua visita all’arcivescovo. Chi c’è dietro a questi giovani? Ma capi religiosi hanno scritto una lettera molto chiara nel senso del dialogo interreligioso e noi andiamo nello stesso senso, perché è un’opzione della Chiesa. Gli integralisti hanno mandato a dirmi di non andare più alle feste islamiche. Ma io ci andrò a causa di Gesù. È un po’ come diceva Martin Luther King per l’apartheid: “Voi potete umiliarci e gettarci in prigione, ucciderci, ma non potrete mai impedirci di amarvi”. Questa è la forza del Vangelo: la forza di amarsi.
Esiste un documento del Consiglio pontificio, “Dialogo ed evangelizzazione”. Non si tratta di proselitismo, ma non ci dimentichiamo che abbiamo anche noi un messaggio da proporre».
Nei paesi confinanti, Mali e Niger, c’è la guerra e il pericolo Al Qaeda?
«I contesti sono simili ma diversi. Ad esempio la proporzione di musulmani è molto più elevata in Mali e Niger. In Niger 95%, in Mali 90%. In Burkina le statistiche ufficiali dicono che ci sarebbe il 60% di musulmani, il 19-20% di cattolici, 5% di protestanti e il resto di religioni tradizionali. Ma non sappiamo come hanno fatto queste stime. Quel che è certo è che non si deve dare troppa importanza a questi dati, altrimenti si rischia di scivolare nel confronto etnico-religioso. Anche in Niger e a livello delle famiglie c’è la stessa configurazione di solidarietà di qui anche se l’islam è maggioritario. L’islam sub sahariano è diverso da quello dell’Africa del Nord, dove nella stessa famiglia non si tollera la conversione, mentre qui si accetta che l’altro sia differente, di un’altra religione».
Il Burkina può essere considerato una frontiera per l’integralismo islamico?
«Ci rendiamo conto che l’equilibrio è fragile: quello che succede nei paesi vicini potrebbe anche arrivare qui: al Qaeda, Ansar Dine, Boko Haram (vedi MC novembre 2012). Anzi, è possibile che ci siano già. Dobbiamo essere molto vigili e lavorare insieme a livello delle diverse confessioni e delle autorità per promuovere una cultura di tolleranza, a partire dalla scuola e anche dalle prediche. La reazione dei giovani agli auguri degli imam per Natale ha avuto un risvolto positivo, perché ha causato una presa di coscienza nei musulmani, e nelle prediche hanno parlato a favore della tolleranza e contro l’integralismo.
Siamo di fronte a delle sfide importanti, non solo a livello di Burkina, ma a livello mondiale. Occorre coordinare gli sforzi di tutti per una cultura di tolleranza, come direbbe papa Giovanni Paolo II: “La civiltà dell’amore”. Se non arriviamo a rispettarci di più, amarci, vivere come fratello e sorella, sarà una catastrofe. E in questo la Chiesa ha un ruolo unico perché ha un messaggio insostituibile per il bene dell’umanità: il Vangelo».
In Burkina Faso esiste una frattura sociale tra la città e la campagna?
«Non sono scompartimenti stagni. C’è chi vive in città, ma ha la mentalità rurale. Poi i legami famigliari sono tali per cui il cittadino resta in osmosi permanente con i parenti in campagna. Un funzionario non può isolarsi rispetto alla famiglia al villaggio.
Nonostante questo, ci sono problemi. Dovremmo fare di più per accompagnare i giovani. C’è analfabetismo, ignoranza, Aids. Tutto questo ha delle conseguenze nefaste per la vita dei giovani. Poi il problema della mancanza di lavoro. Chi è in campagna è più stabile di chi vive in città e non ha nulla da fare. La tentazione è il banditismo. Ci sono delle nuove povertà in città alle quali dobbiamo far fronte. I mendicanti, i bambini di strada. Stiamo cercando di organizzarci per queste situazioni che non troviamo in villaggio, dove c’è più solidarietà famigliare. La Chiesa non è sempre attenta o attrezzata. Ma se non è la Chiesa dei poveri non è la Chiesa di Gesù Cristo. Dobbiamo avere occhi e cuore aperti e attenti a queste situazioni vissute da una grande parte della nostra popolazione.
In campagna c’è una grande mancanza di servizi di base, come l’acqua potabile. Ma ci sono famiglie in città che non possono avere il loro pasto ogni giorno e l’acqua nei quartieri periferici non c’è. Occorre vedere caso per caso».
I vescovi del Burkina parlano della necessità di una trasformazione profonda della società. Qual è il ruolo della Chiesa?
«La scuola è il luogo della trasformazione della mentalità. I media, la televisione: la gente vede immagini da tutto il mondo con le antenne paraboliche. Come Chiesa cerchiamo di essere al servizio di una società, con queste grandi sfide. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutti i problemi, ma vogliamo essere presenti, un po’ come il buon samaritano che ha pietà del povero ferito al bordo della strada. Ci sono molte donne e uomini feriti al bordo della strada, e cerchiamo di portare quello che possiamo. A livello di scuole primarie, secondarie e università. Abbiamo due università cattoliche (Ouagadougou e Bobo-Dioulasso) e un istituto superiore a Kaya. Nella sanità abbiamo l’ospedale Paul VI che ha difficoltà, ma rende servizio alla popolazione. Nelle parrocchie ci sono i comitati di salute per la visita dei malati. Inoltre esistono molte associazioni parrocchiali per aiutare i meno abbienti. Tutto questo è modesto e insufficiente rispetto all’ampiezza delle sfide».
Come vede l’impegno dei cattolici in politica in Burkina Faso?
«È complesso. Due anni fa ho fondato la parrocchia dell’università. Ha il compito di seguire le scuole superiori, circa 100 sulle 300 di Ouaga, le scuole professionali e le università. Io credo nella pastorale dei gruppi sociali, ovvero la pastorale tra pari. I medici sono organizzati con i Camilliani, ci sono gli uomini d’affari cattolici, i banchieri, i parlamentari e un’organizzazione parrocchiale che forma l’élite intellettuale alla dottrina sociale. L’idea è di contribuire alla formazione dei decisori della nostra società».
Perché parlate di giustizia, riconciliazione, pace?
«Il riferimento è al Sinodo per l’Africa del 2009. Queste restano le grandi sfide per tutta l’Africa. Anche per il Burkina Faso: abbiamo bisogno di una società più riconciliata, abbiamo la nostra storia, con la rivoluzione, le ferite profonde, e non è sicuro che esse siano guarite. Se c’è stata una reazione forte dei vescovi rispetto alla creazione del Senato è per salvaguardare la pace sociale: se un’istituzione deve essere creata e far scoppiare l’insieme della società, qual è il bene di questa istituzione? È una priorità?».
Marco Bello
Da http://www.rivistamissioniconsolata.it
Dicembre 2013