Intervista di viaggio: “Semirette”
Giovanni Giglio, giovane autore del libro “Semirette", è di Faenza e aveva da poco tempo svolto un reading al Caffè Nove 100. Mi aveva in precedenza contattato su facebook e io distrattamente avevo guardato a quell'email e come faccio per altre l'avevo messa da parte...della serie ci guarderò...
Mi aveva comunque incuriosito e una volta riaperta l'email, l'evento era già passato, ma ci siamo voluti incontrare.
La prima cosa che è balzata come un'autentica sorpresa è che lui non sapeva che mi occupavo di turismo responsabile e io non sapevo - anche se avevo labilmente intuito qualcosa - che lo scritto era frutto di un viaggio negli Stati Uniti nel 2003, che lo aveva segnato profondamente.
Il mio interesse poi è cresciuto durante la chiacchierata e le mie domande si sono susseguite una dietro l'altra.
Ne è nata un'intervista del tutto inattesa che poi ho chiesto a Giovanni di trascrivere per il nostro blog.
“Semirette è... ognuna delle due parti in cui una retta è divisa da un suo punto” – potrei rispondere subito, per prendere tempo e buttarla in caciara.
Mi pento di non essermi preparato un paio di frasi ad effetto con cui ripararmi da domande scivolose, quali appunto: “Parlami del tuo libro...”, che poi non è neanche una domanda, almeno non una diretta – le peggiori, le più aperte.
Almeno sono scampato a domande di ogni tipo il giorno della presentazione. “Un reading, non una presentazione...” qualcuno mi ha corretto, quando per me il modo migliore di presentare in pubblico uno scritto è leggerlo, scoraggiando eventuali tentativi di conoscere l'autore.
Comunque, in “Semirette è... un'esperienza di solitudine” un po' d'effetto mi sembra che ci sia, se non altro perché viaggio e solitudine non fanno necessariamente coppia fissa. Lo stesso non si può dire della voglia – il bisogno – di partire, che non a caso fin dalla prima pagina esce allo scoperto. La sfida che alcuni lanciano alla vita fuori dalle mura in cui l'anagrafe l'ha incasellata difficilmente si contiene. (Se non è possibile essere rette, almeno semirette! Se una casa ci è stata data, che la si possa lasciare!)
Attrazione per l'imprevisto e la libertà dell'incerto: figlia forse dei tempi che corrono, forse tipica dell'adolescenza o, più in generale, dell'uomo, se non dell'esemplare unico che parte, neanche lui sa bene per che cosa... La sorpresa, allora, è scoprire che, più che un'andata, questo è un ritorno; più che una separazione, un ricongiungimento: non solo una serie di arrivi e partenze, ma una serie di ritorn all'angusta e inesauribile casella del VIA dove tutto potrebbe continuamente stancarsi e finire, ma dove tutto continua ad avere inizio.
La pasta della memoria, che nel chiuso di casa tende a raffermarsi, in viaggio invece fermenta, ed ecco che di fianco ai mille volti e scorci dello scomposto puzzle nordamericano emergono i volti più cari – più cari ora di prima –, in un dialogo a distanza di spazio e di tempo, reale o immaginario, con i vivi e con i morti che non sono morti. Per assurdo, è nella lontananza che diventa possibile riscoprire origini che sembravano spompe. Così, alla domanda “Quello che lasci tu lo conosci?” una risposta negativa per corollario dovrebbe avere l'esilio.
Fin qui gli affetti. Ma insieme a questi, a contatto con il nuovo, risorgono anche le miserie di cui si è incrostati e che non è un cambiamento di fusi orari a poter scalfire, che, anzi, quanto più si è puntato sulle proprietà purificanti del viaggio – uno scrub al sale di Persia... –, tanto più salato sarà il conto del disincanto. Non c'è nulla da imparare, nulla a cui aggrapparsi o di cui godere lungo il cammino, al di fuori del gioco vigile e aperto del dare e del ricevere. Un mese dopo l'altro, un passo dopo l'altro, il viaggio si rivela non meno morte della stasi, se “non si rinuncia a tutto ciò che si era prima di partire” (T. Merton, Diario, settembre 1968).
Infine, sì, Semirette è un'esperienza di solitudine, perché chi parte ha ritmi vaghi, dipendenti quasi solo dalla scadenza del visto e dal conto in banca. Davanti, ad aspettarlo, niente: nessuna nostalgia, se non di movimento. Difficile stargli dietro. Non che qualcuno ci provi: per lui non sembra darsi viaggio e cambiamento se non nella solitudine sospesa tra i suoni, le cose e le persone in cui si perde così bene da ritrovarcisi. Qualcosa come essere tutto in tutti: come l'immedesimazione – o lo straniamento.
Mi è capitato stamattina. Supermercato: reparto casalinghi. Giovane magrebina fissa sullo scaffale dei detersivi. Non si decide: marche sconosciute, etichette italiche, moneta diversa e alla fine pure le domande della cassiera – tarjeta? cash-back? p'tit sac? en espèces? sa vut? vat a ca! – che non capisci mai alla prima e a cui, pur di non far brutta figura, gentilmente scuoti la testa, sperando di non aver detto no a uno sconto o una ricarica premio. La sporta taglia le dita: attraverso la strada, l'appoggio per terra.
Mi guardo intorno: tutti sconosciuti uguali. In testa il foulard che mamma mi ha regalato prima che partissi: ne sarebbe contenta, anche se qui è da vecchia. In tasca pochi soldi, l'aria però è nuova, persino profumata: sa un po' di fliyou e, inshallah, non costa...
L'ho raccontato a Giorgio, in cui per via della barba e gli occhialini tondi rischio di rivedermi in un esule afgano, e – bontà sua – gli è piaciuto e non mi ha chiesto altro.
di Giovanni Giglio
giogiglio08@gmail.com