Burkina Faso, il coraggio del cambiamento
Ad ottobre non ci fu un colpo di stato, ma un'oceanica sollevazione popolare che ha rovesciato un regime oppressivo. Nel segno di Thomas Sankara.
Ho letto in queste settimane diverse analisi su quanto accaduto nel “paese degli uomini onesti” che ho trovato sinceramente un po’ semplificatorie e talvolta fuorvianti.
Mi rendo conto di come sia più facile presentare una lettura semplice e lineare della realtà, ma questo spesso non corrisponde alla reale complessità dei processi in atto.
Proviamo quindi a fare un po’ di chiarezza, per quanto ci è possibile.
Ho letto che c’è stato un “golpe militare”. Non è affatto vero. Anzi, potremmo quasi dire che un golpe è stato sventato. Quello che è accaduto, infatti, è una sollevazione popolare di dimensioni oceaniche (oltre un milione di persone in una città – Ouagadougou- che ne conta due milioni) che ha portato in soli tre giorni al rovesciamento del regime di Blaise Compaorè, presidente del Burkina da 27 lunghi anni, da quando venne ucciso il grande Thomas Sankarà.
Approfondirò più avanti la straordinaria figura di Sankarà, perché ritengo che abbia giocato e stia tutt’ora giocando un ruolo decisivo negli avvenimenti di queste settimane.
Ma torniamo a noi. Dicevamo che Compaorè, non pago di 27 anni di governo, intendeva modificare (per la terza volta!) la Costituzione – precisamente l’articolo 37 – al fine di potersi ricandidare alla guida del Paese, potenzialmente ancora per 15 anni!
La società civile e i partiti dell’opposizione avevano più volte, nei mesi passati, ribadito la propria ferma contrarietà a questo disegno, assolutamente inascoltati.
Anche nel proprio campo, Blaise era stato invitato a rinunciare alla modifica costituzionale da numerosi leader i quali, vistisi inascoltati, avevano presentato le proprie dimissioni dal CDP (partito di Blaise Compaoré) e creato un proprio partito di opposizione: si tratta di Rock Marc Kaboré, vecchio presidente dell’Assemblea Nazionale, Salif Diallo e Simon Compaoré, vecchio sindaco di Ouagadougou. Il loro partito, chiamato Movimento del Popolo per il Progresso (MPP) ha destabilizzato il CDP per divenire la prima forza politica in Burkina, incarnando una speranza di cambiamento con un’adesione massiccia del popolo burkinabé e giocando un ruolo decisivo nell’insurrezione popolare che ha cacciato l’ormai ex-Presidente dal potere.
Giunti infatti a ridosso del voto in Parlamento che avrebbe legittimato lo scempio (43 anni al governo sarebbero stati un vero record, da Guinness dei Primati…) si è levata con forza la voce del popolo, in maniera sempre più massiccia e così le proteste che nelle settimane precedenti avevano contato poche migliaia di persone sono lievitate arrivando fino alle manifestazioni immense del 30 e 31 ottobre, di cui abbiamo tutti visto le immagini e i filmati.
Blaise, probabilmente stupito da un simile astio da parte del suo popolo (dico stupito per il suo distacco dalla realtà quotidiana dei burkinabé), ha inizialmente atteso sperando che tutto passasse poi, al secondo giorno di manifestazioni oceaniche, ha accettato di ritirare la proposta di riforma costituzionale, ma a quel punto la piazza non si è più accontentata e ha preteso le sue dimissioni e un governo di transizione che guidasse il Paese verso libere elezioni democratiche.
Compaorè, cercando di arrampicarsi sugli specchi, ha a quel punto dichiarato di essere disponibile a dimettersi, ma solo dopo aver guidato la transizione. Ma ormai il tempo per il negoziato con il suo popolo era scaduto e le manifestazioni sono andate avanti sempre più intense anche per il terzo giorno consecutivo. Si è trattato, è bene dirlo, di proteste in larghissima parte pacifiche, anche se non è mancato qualche atto di violenza, specialmente verso le abitazioni dei parlamentari ritenuti rei di aver spogliato il proprio popolo arricchendosi personalmente a dismisura.
In realtà, al netto di alcuni tristi episodi di saccheggio che purtroppo si ripresentano regolarmente in questi casi, le violenze sono state circoscritte a qualche centinaio di manifestanti, su oltre un milione di persone scese in strada, ma quando l’assalto è giunto al palazzo del Parlamento e poi ha puntato deciso verso il Palazzo Presidenziale, è risultato evidente che i militari si erano schierati con il popolo. Sulle ragioni di questo si può congetturare a lungo. Certo sarebbe difficile immaginare di reprimere con la forza una simile massa umana. Ma probabilmente c’è anche dell’altro che vorrei ora provare a inquadrare.
Quello che è sicuro è che i 21 morti e i 307 feriti negli scontri sono state vittime dei mercenari stranieri (per lo più togolesi) assoldati da Compaorè nella Guardia Presidenziale. Già il fatto che un Presidente non si fidi dei militari del proprio Paese la dice lunga… ma del resto lui, memore di com’era andato al potere, preferiva essere prudente al riguardo!
I militari non hanno sostanzialmente posto resistenza ai manifestanti, lasciandoli praticamente passare ad ogni posto di blocco. “Noi ci rifiutiamo di sparare sui nostri fratelli” è la posizione che molti di loro hanno espresso apertamente.
L’opinione pubblica mondiale è rimasta stupita dai fatti accaduti in Burkina in soli tre giorni, ma in realtà sarebbe corretto ricordare che le opposizioni avevano preparato questo momento per almeno 8 mesi.
Partiti di opposizione che, stranamente, sono quasi invisibili sui mass media internazionali, mentre hanno trovato sempre voce i rappresentanti del bellissimo Movimento “Balai Citoyen”, divenuti il simbolo di questa protesta. Sicuramente è interessante capire il ruolo fondamentale che ha giocato e che sta ancora giocando la società civile nello scacchiere burkinabé, però trovo abbastanza curioso che venga attribuita ai soli Movimenti la forza e la capacità di una simile mobilitazione di piazza. Nelle precedenti coloratissime iniziative, i simpatici ragazzi del “Balai Citoyen” (i cui leader sono due musicisti rap: Sams’k Le Jah e Smockey) non erano mai riusciti a coinvolgere più di qualche centinaio di persone. Al contrario i partiti dell’opposizione avevano dimostrato una capacità di mobilitazione, durante i loro congressi, tale da riempire interi stadi!
Credo sarebbe corretto, dunque, riconoscere i reali pesi delle forze in campo che hanno portato alla sollevazione burkinabé e allo stesso modo riconoscere che non si è trattato di un’improvvisa, imprevedibile, fiammata da parte della società civile, ma piuttosto del frutto di un percorso preparato per mesi dai partiti di opposizione che per una volta hanno saputo mettere da parte le divisioni ed unirsi in un quadro comune, denominato CEFO-B (“Chef de fil de l’Opposition politique du Burkina”) il quale ha incominciato da tempo a lanciare parole d’ordine comuni e ad organizzare gigantesche marce in tutto il Paese, fino a giungere al meeting del 28 ottobre, con l’invito alla disobbedienza civile e alla marcia sull’Assemblea Nazionale per cacciare i deputati che volevano votare la modifica costituzionale.
Ma ritorniamo ai fatti. Alla fine del terzo giorno di protesta è sceso nella piazza principale il Luogotenente Colonnello Zida, al fianco dei due portavoce dei “Balai Citoyen” che lo hanno legittimato agli occhi della folla oceanica, e ha annunciato la caduta del governo di Compaorè fra le grida festose dei manifestati.
Gli esponenti del “Balai Citoyen” hanno chiesto a quel punto ai militari di farsi carico di garantire la sicurezza nel Paese e infatti il loro primo atto è stato quello di imporre un coprifuoco notturno per riportare un minimo di calma e di ordine in città.
In un primo momento si è insediato come presidente, attraverso un discorso in tv alla nazione, il Generale Honore Traorè (il capo delle forze armate), che però non raccoglieva la fiducia dei manifestanti, poiché considerato troppo vicino al vecchio Presidente.
Nel giro di 24 ore – verosimilmente concitate – il Colonnello Zida, in un nuovo discorso alla nazione, si è proclamato Presidente, con l’intento di guidare la transizione verso libere elezioni nell’arco di tre mesi (Traorè aveva parlato di un anno, che suona già un po’ diverso…) ottenendo la fiducia di tutti i capi militari.
Zida si è dichiarato fin da subito a disposizione del popolo, onorando i giovani “martiri”, morti per liberare il proprio Paese e rendendosi disponibile ad ascoltare tutte le diverse componenti della società per concertare la transizione in modo consensuale fino alle elezioni.
A differenza di Traorè, Zida viene visto con maggiore fiducia da parte dei manifestanti. La situazione sembra trovare un attimo di calma.
Ma all’indomani si ripresentano delle violenze davanti alla tv di stato, in cui perde anche la vita un manifestante. I giornali stranieri titolano “i militari mostrano la forza”, indicando Zida come il nuovo “uomo forte” del Burkina. In realtà era accaduto che il generale in pensione Kouame Louges, che nei giorni precedenti era stato chiamato in causa dalla folla come possibile nuovo presidente, aveva tentato di entrare nella tv insieme ad un centinaio di sostenitori agguerriti per autoproclamarsi presidente, per cui i militari gli avevano impedito di accedere (il terzo presidente in tre giorni sarebbe stato francamente troppo!). Il morto pare sia stato vittima accidentale di un colpo sparato in aria.
Dal giorno successivo Zida ha iniziato delle consultazioni ampie e plurali, con i manifestanti, i sindacati, i partiti dell’opposizione, i rappresentanti delle diverse religioni presenti nel Paese e anche con gli inviati dell’Unione Africana i quali improvvisamente, come pure ONU e UE hanno preteso un passaggio immediato del potere dai militari ad un esponente della società civile.
Verrebbe da chiedersi dov’erano costoro fino a ieri e come facevano a non vedere quello che anche Amnesty International denunciava in modo chiaro da anni in termini di repressione di ogni opposizione interna, con tanto di numerosi desaparecidos fra gli attivisti. Ma Blaise Compaorè, nell’ultimo decennio, aveva saputo astutamente ammantarsi di un’aurea di garante e mediatore di pace nell’Africa Occidentale, mentre in realtà giocava al ruolo ambiguo di piromane/pompiere; mentre negoziava faceva contemporaneamente affari con i regimi in guerra (Liberia e Sierra Leone in primis), in armi e diamanti (persino con quel delinquente di Charles Taylor, condannato anche dal Tribunale Penale Internazionale).
Già, gli interessi economici. Non ne ho ancora accennato ma come si sa giocano sempre un ruolo decisivo negli avvenimenti. Occorre anzitutto spiegare che il Burkina Faso, dopo essere sempre stato il “paese del cotone”, ha da pochi anni scoperto di essere seduto, letteralmente, sopra una vera e propria miniera d’oro. Si stima infatti che vi sia oro sotto quasi un 20% del territorio burkinabé! Negli ultimi anni, infatti, quello che era sempre stato uno sfruttamento artigianale (a parte poche eccezioni) dell’oro si è trasformato in enormi cantieri estrattivi con multinazionali straniere (per lo più canadesi e americane) che hanno stretto accordi ventennali con il Governo di Compaorè per avere le terre in cambio di qualche scuola e vaccinazione per i villaggi vicini.
Questo ovviamente cambia il ruolo geopolitico che il Burkina ha storicamente avuto in passato e lo proietta in una dimensione nuova, dopo decenni ai margini dei processi di mercato internazionali.
Ma ancora più importante è la posizione strategica che il Paese ha assunto negli ultimi anni per il controllo della regione, in particolar modo per il contrasto ai jihadisti del Sahel (specialmente in Mali) e interposizione fra essi e i gruppi di Boko Haram in Nigeria; negli ultimi anni si sono così installate basi americane a Ouagadougou e a Kaya, anche con i droni.
Un evidente cambio di equilibri per un Paese storicamente vicino alla Francia (ex colonia!) e ai suoi interessi, al punto che Hollande ha ammesso apertamente un ruolo attivo francese nella fuga di Compaorè verso la Costa d’Avorio nei giorni successivi alle proteste. (Ora l’ex-Presidente ha lasciato la Costa d’Avorio, per il Marocco, ma pare che presto potrebbe ritornarvi su richiesta delle autorità marocchine, a fronte di una richiesta di estradizione delle nuove autorità burkinabé, alla quale la vicina Costa d’Avorio non intende invece rispondere.)
Al contrario è interessante osservare come il Colonnello Zida, divenuto nei giorni successivi alla sollevazione popolare Capo di Stato del Paese, fosse molto vicino al Pentagono, essendosi addestrato in un corso antiterrorismo nella MacDill Air Force Base in Florida e un corso di intelligence militare in Botswana sempre finanziato dal governo degli States, come ha svelato il Washington Post nei giorni scorsi.
Pare quindi che gli Stati Uniti stiano stendendo la propria mano su un territorio storicamente sotto il controllo economico e politico francese.
Ad ogni modo, per ritornare alle vicende di attualità, dopo i disordini dei giorni della rivolta, l’ex-sindaco di Ouagadougou Simon Compaoré ha lanciato un appello, subito raccolto dalla popolazione della capitale, a ripulire la città ed è straordinario vedere come migliaia e migliaia di cittadini, uomini e donne, giovani e anziani, si siano riversati nelle strade con scope e ramazze e abbiano in un sol giorno riportato Ouagadougou al decoro e all’ordine!
Sul fronte diplomatico sono proseguite le consultazioni e si è trovato un accordo per svolgere le elezioni a novembre 2015. Nel frattempo si è cercato, con il coinvolgimento di tutte le componenti della società, di progettare uno “schema della transizione” condiviso che – a prescindere dal nome del Presidente che sarebbe stato poi scelto – garantisse una tenuta del processo. Le parti hanno convenuto che il Presidente dovesse essere una figura della società civile, di alto profilo e riconosciuta da tutti per la sua autorevolezza e moralità. Il suo nome sarebbe dovuto uscire entro massimo due settimane e così è stato.
Guy Hervé Kam, il porta-parola del Movimento “Balai Citoyen” ha dichiarato: «Se riusciamo a costruire insieme un’architettura della transizione, la scelta del nome che la guiderà non sarà un problema. Dobbiamo costruire un’architettura tale che anche se un un domani dovessimo mettere il diavolo stesso in prima posizione, lui non possa fare che del bene!»
In questa interessante riflessione di metodo ritroviamo tutto il valore del dialogo e della parola, assolutamente centrale nella cultura burkinabé. Basti ricordare che ogni venerdì mattina -da secoli!- si svolge a Ouagadougou la cerimonia della cosiddetta “falsa partenza del Moro Naba” (l’imperatore dei mossì) durante la quale si rievoca un antichissimo episodio di pace, in cui i dignitari di corte con mille suppliche e argomentazioni convincono l’imperatore, già salito a cavallo, a desistere dalla guerra contro un altro popolo vicino. Il fatto che questo episodio venga ripetuto ogni settimana, da tanto tempo, la dice lunga sull’importanza che questo popolo attribuisce al valore della parola, al dialogo e alla pace!
E così, nel giro di poche settimane è stata scritta in modo consensuale la Carta con le regole della transizione che ha anche quantificato la rappresentanza delle diverse componenti della nuova Assemblea, nominata Consiglio Nazionale di Transizione, composta da 90 deputati: 30 per l’opposizione politica, 25 per le forze armate, 25 per la società civile e 10 per esponenti della vecchia maggioranza politica (facendo tesoro del processo di riconciliazione in Sudafrica, per evitare un’ulteriore lacerazione nel Paese; ma scegliendoli fra quanti si erano opposti alla modifica costituzionale voluta da Blaise).
Quindi è stato individuato il nome dell’attuale Presidente -Michel Kafando- che guiderà il Paese fino alle elezioni del novembre 2015 alle quali, altra nota di metodo interessante contenuta nelle regole della Carta, lui non potrà partecipare in quanto Presidente incaricato di guidare la transizione.
Infine, lo avevo promesso, vorrei concludere con un rapido accenno alla straordinaria figura di Thomas Sankarà, che ha rappresentato un punto di riferimento decisivo non solo per la popolazione (oggi ancor più di quando era in vita!) ma anche per i militari stessi, nelle vicende di questi giorni, come un faro inestinguibile di dignità e coraggio che ha guidato i passi del suo popolo in questa che è già stata definita la “primavera nera”.
Una primavera che crea un precedente importante e lancia un messaggio anche agli altri Paesi dell’Africa, sia ai suoi presidenti “dinosauri” (dall’ugandese Yoweri Museveni, al camerunese Paul Biya, fino all’uomo forte dello Zimbabwe, Robert Mugabe), sia -forse ancor più- alle popolazioni che hanno intravisto in quanto avvenuto nel Burkina Faso una possibilità di realizzare, anche nel proprio Paese, il vecchio sogno di Sankara: «Per ottenere un cambiamento radicale, bisogna avere il coraggio di inventare l’avvenire».