Lo scandalo Oxfam e il nodo ineludibile della degenerazione dell’«umanitario»

Se effettivamente sapeva e ha scelto di non far nulla, come il resto dei vertici, il suo futuro come amministratore delegato appare segnato. Goldring per ora si è limitato a rimettere il proprio mandato nelle mani del consiglio di amministrazione.
Inserito da Giorgio Gatta mercoledì 14 febbraio 2018

di Raffaele K. Salinari

da Il Manifesto del 13 febbraio 2018


Penny Mordaunt, ministra britannica per la Cooperazione Internazionale, definisce un «fallimento morale» lo scandalo sessuale che ha investito l’organizzazione non governativa Oxfam. Le notizia parlano di fatti avvenuti nel 2010 dopo il terremoto di Haiti.


E già denunciati all’epoca dalla stessa organizzazione, rispetto ad incontri dei suoi cooperanti con prostitute, forse anche minorenni.


Nei giornali britannici lo scandalo si allarga anche ad altre Ong con base in Gran Bretagna, sino a lambire la stessa Croce Rossa internazionale. Quali che siano le evoluzioni, i fatti di Haiti pongono a tutto il mondo della cooperazione e dell’aiuto umanitario un problema che non può essere eluso.


Si tratta, in sintesi, di tornare ad interrogarsi sulle relazioni di potere tra beneficiari e donatori, da sempre evidentemente squilibrate a favore dei secondi. La temperie geopolitica in cui è nata la cooperazione internazionale allo sviluppo, negli anni Sessanta del secolo scorso, aveva già strutturato queste relazioni in modo decisamente asimmetrico.


Fu il Presidente Truman che diede avvio alle politiche di cooperazione allo sviluppo, dichiarando esplicitamente che il resto del mondo avrebbe dovuto seguire il modello statunitense se voleva giungere, finalmente, ad eguagliare il livello di vita dell’americano medio. Era l’ideologia dell’american dream; oggi sappiamo bene cosa significa in concreto, un vero incubo.


Anche oltre la cortina di ferro la cooperazione allo sviluppo venne utilizzato come strumento della Guerra fredda, come carota verso i Paesi di nuova indipendenza. Ma, sia da est che da ovest, ciò che realmente faceva la differenza, al di la della retorica sviluppista, era il nodoso bastone della dittature che via via sostituivano i tentativi democratici. Un esempio per tutti: il Congo di Lumumba barbaramente ucciso per aver affermato che le risorse del suo Paese erano dei congolesi. Dopo sessanta anni quella guerra civile miete ancora milioni di vittime, e per gli stessi interessi.


Ecco allora, come lucidamente già chiariva Frantz Fanon, che nelle pieghe dello «sviluppo» si nascondono portati affatto contrari.


L’idea che esiste una leadership alla quale il resto del mondo si deve di fatto adeguare, sottende naturalmente il disprezzo, più o meno manifesto, per le culture che, secondo questa visione, sono «sottosviluppate» a cagione della loro storia.


Ecco allora che a forme di sfruttamento palese, attraverso la presenza coloniale, si sostituiscono modalità più sottili, ma non meno invadenti, di colonizzazione del simbolico. Kwame Nkrumah, leader panafricanista del Ghana indipendente, evidenziava senza mezzi termini la necessità di «decolonizzare il simbolico» dei popoli africani.


Fanon dedica a questi temi i Dannati della terra e Pelle nera maschere bianche. Oggi vediamo chiaramente come queste dinamiche di potere giocano pesantemente anche nel campo dell’accoglienza e dei migranti trasformandosi in razzismo e xenofobia, in revisionismo storico e sovranismo.


La degenerazione dell’umanitario, però, risulta molto più estesa se consideriamo che oramai le Ong internazionali sono sotto il fuoco incrociato anche di Governi sedicenti democratici, a partire dai divieti di salvataggio in mare dei migranti sino alla loro sostituzione con gli eserciti, costituzionalmente alieni alle regole della neutralità ed indipendenza. Se si dovessero ricordare gli scandali legati agli interventi umanitari militari la lista attraverserebbe ognuno di essi.


Ma, proprio partendo da queste evidenze, le Ong hanno cominciato, sin dagli anni Ottanta, ad introdurre codici di condotta sempre più stringenti, sia per quello che concerne i criteri di reclutamento sia per la vigilanza interna. Altro dato significativo, come nel caso di Oxfam appunto, la presenza delle donne ai vertici delle Ong, divenuto strutturale per introdurre forti correttivi alle dinamiche di genere.


Certo molto resta ancora da fare ma la capacità delle Ong di far pulizia al loro interno e di dotarsi di strumenti di prevenzione di questi fenomeni va letta come lo sforzo di superare quel portato ancora oscuramente sviluppista che rappresenta la peggor negazione degli ideali contenuti nella Carta dei Diritti dell’Uomo.


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