Quando prigionieri italiani scalarono il monte Kenia nel 1943
Oggi partiamo per un libro che racconta una storia strana, diversa dalle precedenti.
Siamo nuovamente in Africa, ma questa volta la spinta verso l'altrove non è quella dell'esplorazione dell'ignoto o della celebrità da raggiungere.
Questa volta l'avventura in montagna diventa il campo per la ricerca della libertà.
O almeno di una pausa di libertà.
Felice Benuzzi con "No Picnic on Mount Kenia" (scritto nel 1946 e uscito in Italia nel 1948 con il titolo di "Fuga sul Kenya") ci racconta non solo una spedizione ai limiti dell'assurdo, ma anche un il viaggio interiore di un uomo che deve scendere a patti con la Storia, la guerra e la sconfitta del suo mondo.
Un uomo che però non accetta di essere distrutto dagli eventi, ma vuole rialzarsi e vuole farlo coltivando e realizzando un sogno.
Nato a Vienna nel 1910 ma cresciuto a Trieste, Benuzzi è un alpinista della prima ora, esploratore delle Alpi Giulie con Emilio Comici.
La Storia dell'Italia fascista e coloniale orienta la sua vita verso un lavoro amministrativo ad Addis Abeba. E proprio sulla costa orientale viene fatto prigioniero dagli inglesi nel 1941 e internato in un Campo di prigionia dove passerà tutta la guerra fino alla liberazione nel 1946.
Ovviamente nella galleria degli orrori della seconda guerra mondiale non è certo questo il testo in cui andare a cercare il male assoluto.
I campi di concentramento inglesi non avevano niente a che vedere con ben altri campi di sterminio e si potrebbe certamente obiettare che il nostro autore si trovasse dalla parte sbagliata della Storia.
Questo l'autore lo sa e fortunatamente non è questo lo spirito con cui scrive il libro, nella sua narrazione non si trova infatti apologia per il passato, quanto lo smarrimento degli uomini davanti ad un presente che non controllano e verso un futuro che non riescono ad immaginare.
Benuzzi ci racconta il Campo come un concentrato di umanità, di tipi umani e di storie:
"Dopo un viaggio di trentasei ore dalla costa, la lunga tradotta dei prigionieri si arrestò fuori d'una stazioncina sull'altopiano. Nel mezzo della piana che pareva sconfinata, arsa com'era dal sole equatoriale di mezzodì, luccicavano come la distesa d'acqua di una fata Morgana, i tetti di lamiera zincata di centinaia e centinaia di baracche, racchiuse in reticolati che si indovianavano tra le torrette di guardia delle sentinelle. Solo a guardarle ci si strinse il cuore. (...) A testa china, messi per quattro, cominciammo a muoverci anche noi sotto il calore schiacciante strascicando il passo. L'immenso serpente lento e muto si snodava nel polverone come se si avviasse verso il nulla. Mi vennero in mente certi film con colonne di deportati nel turbinio della neve in Siberia. Arrivammo alla soglia del campo che si ci era stato detto sarebbe stato il campo definitivo. Definitivo: che parola terribile!" |
Nel 'campo', in questo non-luogo, orgogliosa invenzione della contemporaneità le vite, le abitudini e le speranze di ognuno si frantumano perdendo i propri punti di riferimento materiali e mentali creando una strana umanità sospesa:
"Campo di concentramento, non c'è che dire, è un termine esattissimo. Ci si trova ogni tipo umano, ogni carattere. Umanità allo stato concentrato, saturo direi, umanità in conserva. Il captivus vulgaris, come qualcuno ha voluto denominare scientificamente il prigioniero di guerra italiano nell'East Africa, non è dunque una sottospecie dell'homo sapiens, ma in un certo senso una superspecie, perchè e l'Homo (cosidetto) sapiens concentrato. Si. Ce n'è proprio di tutti i tipi, giovani e vecchi, malati e sani, pazzi e savi, onesti e farabutti, terroni e polentoni, ottimisti e pessimisti... ragazzi generosi e carogne maledette." |
E in tutta questa 'commedia umana' cosa c'entra la montagna?
Semplice, la montagna, e che montagna, la sagoma bianca e innevata del monte Kenia, fa da sfondo e cornice silenziosa al campo.
La sua sagoma si intravede nelle nebbie della calura, stagliata oltre la piana, come un miraggio, oltre il reticolato.
Per Benuzzi, quell'immagine è qualcosa che lo riporta al suo mondo prima del campo.
Un punto da cui ripartire. L'amore per gli spazi dell'avventura e della montagna è forse la cosa migliore da salvare e da cui ricominciare per affrontare presente e futuro.
E nel presente quella sagoma lontana incarna tutto ciò che manca nel campo.
Quindi cosa fare?
Semplice, progettare un modo per poterla raggiungere e salire.
Per scappare?
No, impossibile scappare da un continente e da un mondo in guerra.
E allora a quale scopo rischiare la morte con una fuga?
Progettare una spedizione per sentirsi ancora vivi e capaci di agire sul proprio futuro, progettare per poter coltivare la speranza anche in un brandello di libertà.
In una recensione del 1948, Dino Buzzati scrisse: "Una libertà provvisoria e fantastica essi tentarono fra lo stupore quasi indignato dei compagni di prigionia che li giudicavano per matti".
In un mondo in preda alla follia della conquista e del dominio, la bellezza di questa storia è tutta in una impresa fatta per coltivare solamente la propria anima e tornare a stupirsi davanti alla bellezza del Mondo:
"Ogni passo era una scoperta, un principio. Eravamo all'orgine delle cose, quando i luoghi non avevano nome: ogni sguardo faceva scaturire dal nostro animo pensieri d'ammirazione, di gratitudine, di riverenza." |
E come riescono tre prigionieri internati in un campo di concentramento ad organizzare e portare a termine una spedizione alpinistica di oltre due settimane su una montagna di quasi 5200 metri neanche alpinisticamente semplice?
Senza avere ovviamente nessuna attrezzatura, senza viveri, senza ne carte ne documentazione? Beh questo è parte della bellezza del libro e del motivo per cui vale la pena leggerlo.
Si può sicuramente dire che leggere dei mille modi e sotterfugi in cui i tre misero a punto la loro attrezzatura, corde piccozze e ramponi compresi è una bella lezione per chi crede che soldi e mezzi siano la sola via verso i sogni.
Ma sopratutto si potrebbe scoprire come anche la semplice etichetta di una carne in scatola possa essere la chiave per iniziare una grande avventura. E oltretutto ottimo sostituto di carte e foto aeree per studiare itinerari e vie di salita!
La salita del monte Kenya del 1943 non aggiunge nuovi tasselli alla geografia e neanche alla storia dell'alpinismo.
La notizia della scalata dei prigionieri italiani, fece il giro non solo del Campo.
Ovviamente la guerra non si fermò certo e qualcuno provò ad usare anche la notizia in chiave di propaganda nazionale. Eppure allo stesso tempo quell'impresa inutile, così dissonante rispetto a tattica e strategia militare, ottenne il rispetto e l'ammirazione di entrambe le parti.
Forse ricordava a tutti che esistono passioni e azioni che nulla hanno a che vedere con la guerra.